L’arrivo in missione a Suguta, Maralal. Capitolo 43. 14/08/2019
Terzo giorno.
Ho deciso di scrivere sempre, ogni sera.
E quindi anche si gli occhi si chiudono cerco di resistere stoicamente: ci sono troppe cose da raccontare e non voglio perdermi un solo briciolo di ricordi.
Stamane sveglia alle 4:30, colazione con BlueBand e pane tostato e di corsa via con i megavaligioni pieni d’amore.
Siamo arrivati grazie ad un Uber Kenyota che si chiama in un altromodomanonricordoquale alla stazione dei Matatu per Maralal.
Si trova a Nyamakima e alle ore 6:15 era già un bordello incredibile.
Qui non si guida, qui si gioca a granturismo per le strade.
Via Marina sotto le feste di Natale?
Niente a confronto.
I Matatu sono piccoli pulmini che sembrano da 7 posti esternamente ma invece sono o da 10 o da 14 posti.
Piccoli fuori, “grandi” dentro.
Le nostre valigie sono state comodamente messe sul tetto con una corda spessa quanto un laccio di scarpe e si va na meraviglia.
Abbiamo attraversato l’Africa.
Io sebbene stessi in 1 cm2, ho dormito almeno 3 ore delle 8 del viaggio e un po’ mi maledico perché sicuro mi so perso qualcosa wow.
In compenso, in ordine casuale, ho visto zebre, giraffe, mucche, capre, pecore e tanta savana.
I nostri compagni di viaggio: prima fila del matatu, una famigliola con mamma e tre figli, di cui due hanno passato il viaggio a dire “Coat Coat, Cow, Cow” (capra, capra, mucca, mucca), e il terzo quello piccino faceva solo uooooooou e urli improvvisi.
Seconda fila, noi tranne me.
Terza fila, papà con bimbo super piccino con un lecca lecca sapor fragola, poi un ragazzo che si chiamava James, che stava raggiungendo la sua famiglia a Maralal e io.
Quarta fila: mamma del bimbo con lecca lecca, che però ha vomitato tutto il viaggio dietro le mie orecchie, secondo bimbo, e poi due ragazzi con valigie sulle ginocchia.
Siamo arrivati a Nyamaruru per una piccola pausa e così mi son ritrovato per la prima volta in un villaggio del Centro Africa, di quelli che si vedono su National Geographic.
Boom.
Dopo venti minuti di ci siamo rimessi in viaggio: la guida del matutu driver è diventata più spericolata perché le strade erano più rettilinee e mi son sentito tipo come in un missile ciccione di SuperMario per la Nintendo64.
Dopo circa due ore siamo arrivati a Suguta e li, badabum, ho visto per la prima volta i ragazzini di Samburu Smile.
Erano bellissimi.
Tutti a correre verso di noi.
Con il sorriso luminoso.
Rimarrà per sempre con me il momento in cui abbiamo caricato i megavaligioni d’amore sul carretto e tutti spingevano.
Così come se volessero aiutare i loro sogni.
Come se volessero qualcosa di più, a tutti i costi.
Perché magari per un bambino europeo, un paio di scarpe sono solo una gioia passeggera, ma non per loro.
Per loro ogni aiuto può valere una vita.
Può ribaltare il tavolo.
Ho pensato a come nel nostro mondo le priorità sono cosi diverse, a come le persone si lamentano sempre del superfluo.
È una cosa che già sapevo sia chiaro, non voglio cadere nel super banale, ma viverla nella loro quotidianietà è una cosa che fa bummete proprio nell’anima.
Loro cercano le tue mani, si aggrappano a te, sorridono e ti amano non perché porti loro giochi o caramelle, ma semplicemente perché sei lì per loro e gli dedichi attenzioni.
Io non so se riuscirò mai a cambiare qualcosa qui, ad avere la forza di cambiare il destino di anche uno solo di loro.
Sarebbe stupendo e mi impegnerò a farlo.
L’altra metà della medaglia è che qui i bimbi sono soli.
Crescono soli, giocano da soli, imparano a campare da soli.
Basti pensare che i canestri che Sergio aveva appena montato 10 giorni prima, al nostro arrivo erano spezzati.
Bullismo, fottuto bullismo dei “grandi” verso i più piccoli.
Qui si vive secondo le leggi della natura, non esiste educazione e rispetto verso chi è più debole.
C’è intimidazione piuttosto.
Noi siamo qui soprattutto per questo: per lavorare con i bimbi, per invertire questa tendenza, per far capire che ci sono possibilità di salvezza dalla mediocrità, ma bisogna impegnarsi.
A dirla tutta, una buona parte degli adulti sono molto arresi e annoiati, pochi hanno quella voglia di riscatto nei confronti della vita e del loro futuro.
Questa è ciò che ho capito fin’ora, ma spero di sbagliarmi.
Ah, dietro le case nostre c’è una casetta con delle suore speciali, loro sono l’anima buona di questo posto.
La più piccina e vecchiettina si chiama Suor Poline ed è un piccolo grande eroe.
Sta salvando centinaia di ragazze dall’infibulazione, una pratica che ancora oggi viene praticata qui per evitare che la donna non arrivi vergine al matrimonio.
Lei tiene queste ragazze in una sorta di dormitorio, le cura, le tutela nel periodo post scuola.
Le sta praticamente salvando.
Questa è l’Africa, miei cari.
I bambini hanno dentro di loro codificata la felicità, ma poi se la dimenticano perché l’ambiente che li circonda va contro di loro.
Li aggredisce, li incattivisce.
E così tutti questi bambini che ora mi danno bacini e bacetti, magari un giorno perderanno la loro solarità e magari cominceranno a bere e qualcuno a drogarsi.
È molto triste.
C’è tanto da fare.
E ora parliamo di cose belle: il basket.
Vedere palleggiare un piccolo scricciolo di manco due anni e divertirsi nel farlo ti fa dimenticare tutto e allora ti alzi le maniche e fai tutto quello che PUOI fare.
Questo è l’insegnamento che ho ricevuto da Sergio e Simona :mai pensare a cosa non stai facendo o a cosa avresti potuto fare, ma piuttosto pensare a cosa hai fatto e cosa puoi realmente fare.
Ed ecco che gli abbracci non sono più solo abbracci, ed ecco che regalare un pallone non è più solo regalare un pallone.
Ed ecco che giocare con loro non è solo giocare.
È Amore.
Io sarò sempre legato a questo posto e a questi sorrisi.
L’Africa mi sta accogliendo e io lo sento.
La sensazione è stupenda.
Chiudo gli occhi.
Alla prossima,
Peace
Ale