Il mio primo giorno a Lodungokwe. Capitolo 47. 18/08/2019
Sono seduto su una panchina fatta di 3 assi messe a t fuori la casa del prete.
Sono le ore 7:30 della mattina, il sole è appena venuto fuori ed è gigante, l’aria è fresca, pulita, delicata.
Di fronte a me un uccellino bianco e nero, che saltella qui e lì, poi vola per andare al nido, e poi ritorna qui da me. Fa dei voli tipo a 8, tipo a forma di infinito.
Secondo me sta imparando a volare: lo chiamerò Ugo.
L’unico rumore che sento sono piccoli urletti di bambini in lontananza, e galli che con il loro chicchirichi risvegliano gli ultimi dormiglioni.
Qui la terra è rossa, è proprio quella dei campi da Tennis che si vedono in TV. Quella che quando scivoli con la scarpa alzi il polverone stile Nadal dei tempi belli.
Il villaggio da dove vi sto scrivendo si chiama Lodungokwe: si trova appena sopra l’equatore, in Kenya, siamo sempre nel Samburu County.
Non c’è rete telefonica, se non aldilà di una montagna che abbiamo a circa 1km da casa.
C’è un posto preciso che le persone chiamano Network, e praticamente coincide con un albero d’acacia grande e tante pietre messe lì che servono come poltroncine.
Beviamo acqua piovana: viene raccolta in grosse cisterne, messa in taniche leggermente ingiallite, e poi Mama ( che è la nostra cuoca ciccionina tuttofare) la mette a bollire su una di quelle cucine antiche alimentate a legna e carbone.
Di quelle che si trovano ancora nelle baite di montagna.
Dopo la bollitura viene filtrata dentro dei secchi che hanno internamente una sorta di spugna che rimuove le rimanenti impurità.
È buonissima. Un pó insapore tipo la Levissima, ma per ora, stomaco perfetto.
Il villaggio spesso l’acqua invece va a prenderla con delle taniche direttamente al fiume, è compito delle donne e delle bambine che si caricano la schiena e la testa di pesi enormi.
Io sinceramente non so fisicamente come facciano.
La corrente elettrica è generata da piccoli pannelli fotovoltaici, non esiste altro tipo di fonte energetica.
Le case sono perlopiù fatte di legno e fil di ferro, con un po di fango, cacca, e terra qua e là.
Le più belle invece sono fatte con pietre e ho visto un paio addirittura di cemento.
Qui è molto diverso da Suguta, qui siamo nell’entroterra, completamente immersi nella savana.
Le persone vanno in giro con gioielli e acconcianture piene di perline.
Ho capito che quelli con le perline in testa tipo creste sono i guerrieri, mi hanno spiegato che la tribù si chiama Moran.
Hanno sguardi super confusi e anche un po’ incazzati quando ci vedono.
Credo che James Cameron per scrivere Avatar abbia studiato le usanze di questi posti. Il legame con la natura, le tradizioni, la lingua.
(Intanto Ugo sta raccogliendo dei rametti per rinforzare il nido: la natura è meravigliosa).
Quando cammini lungo la strada del villaggio non senti nulla, la natura è padrone e gli umani si adattano ad essa.
Come non posso esser grato alla vita.
Alla fine mi trovo in questo posto, in questo momento, nel mezzo dell’Africa a scrivere queste due righe.
Nell’ultimo anno ho viaggiato tantissimo, ho dormito in case con mille sconosciuti, ho conosciuto milioni di persone.
Ho viaggiato con amici di una vita e poi ho viaggiato solo alla scoperta del mondo e di me stesso.
Maledico ogni volta la mia memoria che mi fa lentamente dimenticare i dettagli e allora io l’aiuto, scrivendo qui. Cercando di non dimenticare le sensazioni che provo.
Conosco me stesso ormai, il presente mi affascina spesso di più del passato e allora il mio cervello, che si entusiasma sempre per nuovi dettagli ogni secondo, lentamente, per fare spazio in memoria, cancella quelli prima.
Minchia quante virgole. Sbadabam.
Ieri mattina siamo andati a Messa.
Un’esperienza boom: tutte le donne avevano grosse collane colorate, un simbolo importantissimo per la loro cultura.
In chiesa si ballava e si cantava livello SisterAct.
Una figata.
C’era una ragazza che suonava il bonghetto per dare ritmo, e una sorta di coro donne/uomini con le voci che Rkelly gliespicciavacasa.
Una sinergia incredibile, un’intensità mai provata in una chiesa.
Il direttore d’orchestra si chiama Padre Jimmy, è un prete colombiano che è venuto qui in missione umanitaria.
Ha sempre un’espressione buffa e ironica, qualche capello qua e là, e uno sguardo attento e pensieroso.
Tipo come se una parte di lui vagasse sempre in un posto diverso da quello che sta vivendo nel presente.
Fa battute che non fanno ridere ma tu ridi comunque perché lui ride mentre le dice.
Oggi lui partirà per Nairobi e quindi rimarremo soli in missione.
La cosa bella della messa è che il prete lascia andare i bambini più piccini a giocare dopo 5 minuti dall’inizio della messa.
Piuttosto che costringerli ad ascoltare discorsi di cui sinceramente a quella età se ne sbattonono i cocomeri, li manda fuori a giocare e poi 5 minuti prima della fine li fa rientrare, per fare il padre nostro.
Mille punti.
Ho quasi paura di dirlo ma dopo una giornata qui mi pare di capire che i bambini qui sono meno soli.
Qui a Lodungokwe l’atmosfera sembra diversa: assomiglia ad una comunità affiatata, i bambini sono più seguiti, addirittura abbiamo conosciuto i genitori di alcuni, ho conosciuto delle maestre, e anche dei ragazzi youth a cui ho insegnato il mio saluto speciale con le dita che schioccano.
Qui sento il profumo di una sana speranza. Il campetto è costruito incastrato tra due alberi d’acacia, e accanto c’è una sala al chiuso dove la scorsa sera ho ballato con loro fino a notte fonda.
Si, vi giuro.
I youth ci hanno invitato ad una festa di ballo, e come potevo mai perdermela.
Entrati dentro pareva tipo quelle feste anni 80 che mi racconta mio padre, con le donne da una parte e gli uomini dall’altra.
C’erano solo 5 sbruffoni al centro che ballavano stile dancehall hip hop e allora eccomi che sono il sesto sbruffoncello.
Cappellino al contrario e si vola in pista.
Mi pareva di ballare con amici di vecchia data, mi hanno accolto nella loro gang quando hanno capito che quel ritmo lo conoscevo bene.
Ritmo, tutto parte da lì.
Boom boom boom, cuore e palla di basket.
Non so se spinti dalla curiosità di noi Musungu, dopo un’ora eravamo almeno 100 a ballare.
Io e Debora siamo stati trasportati per mezz’ora da un trenino di persone che ci dicevano come muoverci, ma soprattutto come muovere il collo.
Pare sia importante saper muovere il collo qui, è una sorta di danza tribale, un movimento che definisce una cultura.
Le situazioni surreali che amo.
Andando via poi, handshake con la pala.
Tornando a ieri pomeriggio invece (minchia sto scrivendo tipo come le onde del mare di Amalfi che sbattono sullo scoglio gigante ai margine destra della spiaggia) dopo la Messa abbiamo mangiato del buonissimo ciapati, e spezzatino di carne di capra.
Un pranzo da “ricchi”, visto che lì in villaggio pochissimi possono permettersi il pranzo a base di carne.
Nel pomeriggio ho conosciuto per la prima volta i nostri playerssss.
Stupendi, pieni d’energia e con i soliti 3/4 ragazzini con la scintilla del basket negli occhi.
Li ho riconosciuti subito. Mi guardavano con ammirazione e rispetto, e seguivano ogni mio movimento ipnotizzati.
Sergio si è occupato dei più piccoli, lui è davvero esperto con loro.
Riesce a coinvolgerli in un modo speciale, con esercizi super funzionali al basket mascherati da giochi stupendi.
E così loro si divertono e imparano.
Dalle 18, sono arrivati gli youth e….Mazzella scende in campo.
Si, ai miei figli potró un giorno dire che ho giocato una partita di basket in un campo in terra al centro dell’Africa, con gli alberi d’acacia che facevano ciao ciao come i pini (cit.) e centinaia di bambini sorridenti come spettatori.
Eccolo qui, quel brividino che mi fa capire che ho appena scritto la fine del capitolo.
Bella storia.
Alla prossima,
Peace
Ale